Gillo Dorfles

I violini resuscitati di Domenica Regazzoni

Violini allo stato embrionale; violini ridotti a frammenti; e anche violini spaccati di cui s’intravede la matrice d’un suono ormai spento. Ma ancora: singoli elementi di violini limitati alla circonferenza o alla sola superficie dell’istrumento dove le due “f”, ora mute, ne definivano per sempre la voce immutabile… Certo: è proprio da questi violini ancora in divenire o resi simili a inedite strutture scultoree che prende lo spunto la suggestiva mostra di Domenica Regazzoni dedicata a suo padre, il grande liutaio che spese tutta la vita alla costruzione paziente e impeccabile di questi pronipoti dei Guarneri, Stradivari, Amati dei tempi andati. Ed è appunto da questa convivenza con il nobile istrumento e dalla laboriosa e delicatissima elaborazione accanto al padre liutaio, con i misteri incomunicabili nella ricerca dei materiali e delle vernici adatte, che l’artista ha preso l’avvio per realizzare – attraverso l’artificio della propria manualità, ma anche con la memoria idolatrata del lavoro pater no – le sue opere attuali: non “quadri” o “statue” ma documenti di un’artigianalità familiare e insieme invenzioni autonome “in chiave di sol” di piccoli trofei lignei. Domenica Regazzoni – che, in altre occasioni, ha saputo dar vita a raffinati collage polimaterici e a minute ma sensibili interpretazioni degli haiku nipponici – in questa mostra ha voluto a bella posta limitare la sua opera esclusivamente a tutto quanto poteva ricordare e celebrare il lavoro paterno: la sua capacità artigianale e il suo incredibile “orecchio” musicale, cercando in questo modo di evidenziare, sia pur metaforicamente, quel connubio – così spesso tentato e quasi sempre fallito – tra le due arti, quella visiva e quella sonora. Che, in questo caso, trae la sua giustificazione appunto dalla confluenza di alcune caratteristiche proprie all’arte dei suoni e a quella delle forme e dei colori. Ecco, oltretutto, perché mi sembra molto positivo il fatto che questa mostra possa risultare – al di là del valore estetico o delle va lenze familiari o filiali – un esempio di quanto sia ancora fondamentale, per tutte quante le arti, un approccio che vorrei definire “artigianale” nell’accezione più nobile della parola. Ossia un approccio che tenga conto delle minutissime calibrature del legno (per la costruzione, appunto, di uno strumento appartenente ai “legni”!) che nessun meccanismo elettronico e nessun computer potrà sostituire o soppiantare; e quanto sia prezioso un simile approccio manuale anche per la creazione di opere plastiche, pure esse, solo dal “tocco manuale” destinate ad essere vivificate ed estetizzate. Che poi alcuni dei pezzi qui esposti – la cassa armonica, i “riccioli” delle chiavi, la mentoniera, l’intero violino con la sinuosità quasi femminea delle sue incurvature – e le composizioni che, attraverso questi elementi, vengono a prendere vita autonoma, siano, già di per sé, piccole “sculture”, sarà un fattore di ulteriore meraviglia per il visitatore. E, voglio sperare, potrà valere a dirci quanto sia ancora vi tale, anche per l’uomo dell’era elettronica e delle azioni virtuali, saper dare il giusto valore alla ricerca del materiale più idoneo alla costruzione manuale, alla sensibilità estetica che in questo caso non è solo “plastica” ma insieme visiva, ornamentale e acustica. Aver ospitato in un ambiente così altamente storico una mostra come questa permette oltretutto di avanzare ancora una volta l’ipotesi che certe valenze ritmiche, certe componenti armoniche (tanto in senso matematico che acustico), certe calibrature lignee, contengano, fuori da ogni legame cronologico, alcune “costanti” estetiche perenni di cui l’arte dei suoni, come quella delle forme e dei colori, troppo spesso si scordano.

Catalogo Skira