Mario Pasi

Modellare la musica

Il percorso artistico di Domenica Regazzoni si inserisce in un contesto triplo, nel segno del ritorno della materia, della riduzione ad icona astratta dell’antica figura, della ricostruzione affettiva dei simboli. L’artista ha un imponente background musicale, un forte rapporto con la nostalgia: la famiglia la trova al centro di una linea che ha ai suoi estremi il padre liutaio e il figlio violinista, e che ha un forte significato estetico. C’è a monte un santuario sentimentale, dedicato all’artigiano che costruisce la culla della musica, e a valle la volontà di veder rinascere questa musica nella ragionevolezza del suono. Ma nulla potrebbe nascere senza la qualità dell’uomo, di chi vive, e allora non può che accendersi un’idea di amore. Il liutaio non c’è più, ma le tracce del suo lavoro e del suo pensiero restano, si inseriscono nelle strutture della casa, si combinano con i mobili e le forme scolpite, assumono inserendosi in pezzi di materiale ligneo un carattere di partecipazione speciale, risco prono il cielo, si fanno specchio dell’esistere, affermano in timbri e colori diversi, in parte e in tutto, una sostanziale presenza e un’incancellabile necessità. Così l’artigiano e l’artista, il produttore e l’esecutore, diventano una sola cosa, una sola categoria. Con un po’ di fantasia, i violini smembrati, raccolti, riordinati, riamati, diventano ancora e sempre suono. La presenza del violino – strumento magico che ai tempi di Paganini era ancora considerato diabolico, essendo quasi impensabile che da una scatola di legno con manico o corde, sfregate da un archetto, potessero uscire quantità immense di suoni – sta al centro di un lavoro, nel caso di Domenica Regazzoni, liutaia nel pensiero e in parte nella mano, che si arricchisce in un gioco mutevole di sensazioni. Che vengono dall’Oriente e aiutano a trasformare in poesia ciò che all’inizio era solo intuizione; o che emergono da un Occidente di ricerca e di semplificazione, che porta a un’esaltazione del colore e a una riduzione al minimo del la forma. In questa idea dell’arte si vanno affermando contenuti forti, che si accendono in ispirazioni da favola. Possiamo credere che l’artista abbia ritrovato il piacere del viaggio, della scoperta di nuovi continenti dell’armonia, dell’esplorazione di oasi nascoste o finora ignorate. Ma che cosa sarebbe un artista, se non partisse in continuazione per nuovi lidi, se non rinnegasse parte del suo passato, se non rinascesse ogni volta diverso dall’immagine rimandata dal suo specchio privato? Il meccanismo delle “Mille e una notte” è perfetto, infallibile, se gli diamo il significato più forte: “raccontare per non morire”. Tutti noi, in fondo, siamo come Shéhérazade.