Lo spartito del sogno
Domenico Montalto
Domenica Regazzoni opera sul crinale tra musica e silenzio. Ma quando parliamo di “musica”, nel suo caso, indichiamo una qualità, una sottigliezza formale che va ben al di là della pur evidente e immediata citazione della disciplina musicale, del semplice ready made, del riutilizzo, sia pur ingegnoso, delle trouvailles da laboratorio artigianale. Certo Domenica – figlia d’arte, di sommo liutaio – non dissimula qui la sua familiarità con cose care, con i reperti del lavoro paterno, con le “ricette” operative apprese direttamente dal genitore, o recuperate postume da appunti di lui. Non nasconde – anzi ostenta – la volontà di onorare quella sapienza, nonché la speranza di ritrovare, in quelle reliquie, un po’ della vita che è irrimediabilmente trascorsa. Quasi a recuperare – nella manipolazione di questi oggetti e materiali (negli odori delle vernici, nei colori del legno, nel suono delle corde) – il ricordo sensuale (e quindi in certo modo vivo, presente) d’una stagione conchiusa: la stagione in cui si è ancora figli, insomma l’età della giovinezza. Domenica sa che cosa intendeva dire il poeta Antonio Machado quando scriveva: “Ricordo soltanto l’emozione delle cose/ e dimentico tutto il resto”. Questa sfera memoriale, questa emozione delle cose, unita a un’inventiva sempre fresca e sorprendente, fanno sì che le “sculture” della Regazzoni divengano metafore profonde, traslati visivi e concettuali in cui lo statuto d’origine delle singole parti (i pezzi e lacerti di strumenti musicali) guadagna un nuovo destino: non più il suono, ma la forma. Ecco quindi che il lemma “musica” addita qui – come si diceva – il quid che va oltre il mero pretesto visivo; indica cioè tali nuove, inedite e raffinatissime “architetture” o immagini plastiche, ottenute con i vari procedimenti peculiari della scultura – l’intaglio al vivo del legno, il collage polimaterico, la fusione in bronzo, procedimenti uniti però ad altri tipicamente pittorici oltre che ebanistici, quali la doratura in foglia, l’applicazione di tele pigmentate, la verniciatura, la patinatura tramite mordenti, che conferisce lucentezza e aulicità. Sono, queste della Regazzoni, costruzioni dotate ognuna di una propria ritmica, appunto di una musicalità che è quella propriamente fisica dell’arte, ottenuta lineis et coloribus, come dicevano gli antichi, ovvero attraverso le coordinate specifiche del linguaggio visivo. Virtuosa violinista della terza dimensione, quella della scultura, Domenica ricompone in nuove immagini, a volte geometrizzanti e a volte più libere, secondo personalissime strategie, le singole componenti sparse dello strumento di famiglia: tavole, piani e fondi armonici, fasce, ponticelli, volute, riccioli, manici, tastiere, corde. Il tutto sagomando, incollando, incatenando, esdasiccando, rifinendo, altre volte modellando, sempre sulla labile soglia tra plasticità e pittoricità. Perché nell’opera della Regazzoni la scultura è solo una modulazione (o un’intonazione, per restare alla terminologia musicale), insomma la parte del tutto di una continua, incessante e copiosa elaborazione interiore, di un vissuto di lavoro instancabile, multiforme, totale che comprende – con pari interesse e dignità – la pittura, il disegno, la grafica seriale, trattata sempre con grande attenzione alla matericità, alla suggestività visiva e sontuosità tattile degli inchiostri, dei toni, delle superfici, delle carte, dei decori. Dagli esordi figurativi la Regazzoni è approdata a una sorta di “astrazione” con citazioni dalla natura (il nido, per esempio) e dalla storia personale e culturale (il legno, sia vergine sia lavorato); “astrazione” congeniale, elettivamente, a tradurne l’interiorità onirica. Scrive Domenica, con la lucidità di autoanalisi che è data in dono solo ai grandi artisti: “Per me eseguire un quadro non è una prova di abilità; è a volte un grido interiore che deve arrivare a qualcuno, a volte una sommessa melodia che deve suscitare sentimenti delicati, senza nome. Il mio non vuole essere un naturalismo di osservazione, ma di partecipazione: tento di evocare (per quanto mi è concesso) quello che sta dietro la superficie delle cose: ecco perché, a volte, una linea non ha più lo scopo di indicare qualcosa… ecco che, liberata dagli aspetti secondari, acquista una sua intima musica, una forza interiore”. L’arte della Regazzoni non descrive, né rappresenta, né simboleggia, ma partecipa di ciò che sta dietro le apparenze, e che tutti ci avvolge, vale a dire l’etereo; e lo fa evocando un nuovo contenuto estetico con l’invenzione di forme mirabili e gentili, palesando un “canto segreto”, per usare un’immagine della grande poetessa Antonia Pozzi, i cui versi Domenica ha amato e illustrato. Un “canto segreto” che risulta però interiorizzato, silente, celato nel silenzio della forma. Ed eccoci giunti, infine, all’altra faccia, con la musica, del lavoro di Domenica: il silenzio. L’immagine infatti, in quanto strutturazione o architettura di senso e di sensi, è di per sé muta: “La pittura è una poesia che si vede e non si sente”, annotava Leonardo da Vinci. Con questi suoi violini “resuscitati” (Gillo Dorfles) Domenica resuscita l’armonia delle sfere, unisce mondi diversi, e ci ridesta a una nuova visione, consapevole – come scrive Thomas Mann nel Doctor Faust – che “la musica e il linguaggio [cioè la forma] devono andare uniti; sono in fondo una cosa sola”. L’arte di Domenica Regazzoni, spartito di poesia, così razionale e insieme spirituale, ci documenta anch’essa un piccolo paradiso.