Giuseppe Frangi

Domenica Regazzoni e Gabriele Basilico
La fabbrica e la città

Ci dava, la città, il calore di sé che bruciava,
e la sua polvere, la sua cenere.

(Elio Vittorini)

Lì alzavano la loro mole Unione, Concordia, Vulcano, Vittoria: nomi teneramente retorici per quei giganteschi capannoni da dove ogni giorno usciva acciaio a tonnellate. Lì c’era il gigantesco forno T5, quello rivestito di lamiera, che da lontano potevi scambiare per una cattedrale. Lì c’erano le “vasche Pompei”, così ribattezzate perché simili ai sistemi ipogei dell’antichità: sterminato sistema sotterraneo che connetteva il grande arcipelago di edifici dove avveniva la produzione. Lì c’era il forno T3, con la sua copertura a forma di gigantesca ganascia, che per tutti era la Pagoda.
Lì soprattutto c’erano gli uomini, migliaia di uomini che presidiavano 24 ore su 24 questo immenso villaggio di fuoco. Lì manovravano i “serpentatori” «quelli che, afferrandolo con lunghi tenaglioni, bloccavano e dirigevano il filo di acciaio appena fuso, che guizzava contorcentosi paurosamente» (Emilio Tadini). Lì manovravano gli “attrappatori” «quelli che accompagnavano il percorso delle sbarre incandescenti sui rulli» (sempre parole di Tadini). Lì lavoravano le sole 300 donne ammesse in questo girone di fuoco, al reparto dei bulloni. Lì si dormiva pure, dormivano a centinaia, quando i trasporti mancavano e neanche i pulman della Grattoni permettevano di tornare per tempo al paese, la sera: dormivano nel “palasun”, il Vecchio Albergo Operaio. Camere doppie per gli impiegati, grandi stanzoni da 50 letti per gli operai.
Era una città dentro la città, la Falck. Teatro di un’epopea industriale ma soprattutto luogo di lavoro a testa bassa, grandioso precipitato di abilità e di fatica, terreno di migliaia di storie individuali che varrebbero ciascuna un romanzo.
Nel gennaio 1996, l’ultimo forno era stato spento, il grande carroponte aveva finito il suo pachidermico avanti indietro, sui binari sospesi nel vuoto. Quando tre anni dopo, nel 1999, Gabriele Basilico era entrato con la sua macchina fotografica, di quell’epopea non restavano più che grandiose rovine. Il tempo sembrava aver macinato con una velocità, che a noi pare quasi rapinosa, i segni pur colossali di quella storia.
C’è in queste immagini qualcosa che lascia attoniti, quasi feriti: come può la storia – non quella lontana del passato remoto, ma quella vicina di un passato a noi molto prossimo – ridurre in briciole simili grandezze? Come guardare all’annientamento rapido di quella che era pur una grande costruzione umana? L’impressionante rombo di potenza si era ridotto al silenzio rotto solo dal vento e dal volo allibito di qualche uccello; il furore del fuoco aveva lasciato il posto a quella luce fioca che filtra tra le rovine e si fa largo tra mille pertugi. Non è passata nessuna guerra da queste parti, come invece a Basilico era accaduto di raccontare nei suoi lavori da Beirut; non è passata nessuna guerra ma gli esiti non sembrano dissimili. Qui è passata solo quella logica che, con poche deroghe, regola il corso della storia, consumando il senso e la funzione delle creazioni umane, anche delle più strabilianti.
Per questo le immagini di Basilico suscitano struggimento; c’è un qualcosa di altamente patetico nel solenne dispiegarsi delle rovine; un qualcosa di esemplare, che intercetta l’eco di un destino. È il destino delle città, quelle creazioni complesse e meravigliose dell’uomo che però nel loro tessuto comprendono ineluttabilmente le scorie di tanti fallimenti, i frammenti di storie interrotte, le imperfezioni di processi usciti fuori controllo. Per quanto ci abbiano abituati a sognare e addirittura a desiderare organismi perfetti, regni asettici di efficienza e di benessere, quell’entità che chiamiamo città non può esistere se non prende il rischio di tener dentro di sé quelle macchie vistose, impossibili da nascondere; se non accetta di aver addosso tracce di una sporcizia a volte incancellabile.
Ora, se adagiassimo un immaginario velo della Veronica su una delle immagini di Basilico, l’improntache ne resterebbe impressa sarebbe certamente molto simile alle opere che non a caso Domenica Regazzoni espone per questa mostra su La fabbrica e la città. Le sue tele infatti sono costruite nell’equilibrio tra due componenti dicotomiche, la luce dell’energia vitale che è sostanza delle città e la zavorra greve delle sacche di passato con cui sempre ci si trova a convivere. C’è lo slancio e c’è la caduta: opposti che per destino sono chiamati a condividere lo stesso spazio fisico, a coabitare sulla stessa carta geografica, a volte anche a sperimentare una stridente contiguità. Sono zucchero e catrame, per dirla con le parole di Lucio Dalla che la stessa Regazzoni ha usato giustamente come titolo di questo ciclo di lavori. Tele che sono pensate come mappe sintetiche, capaci di condensare tutti i codici da cui è costituito il dna di qualsiasi città.
Ma Domenica Regazzoni non s’adagia in un facile schema un po’ manicheo e invece mischia le carte. E allora se ci chiedessimo dove sia lo zucchero e dove sia il catrame nelle sue città, ci troveremmo spiazzati. Quasi imbarazzati. Le categorie infatti si mischiano, i confini vacillano.
Nella tenerezza di quelle sagome architettoniche, manufatti consumati e incatramati da tanta, forse troppa storia, troveremmo il sapore irriducibilmente dolce di tutto l’umano che è passato di lì. Il catrame insomma si scopre zucchero. E viceversa, in quei cieli tersi come accesi da mobili utopie, insieme alla dolcezza di ogni attesa, troveremmo l’inquietudine per un futuro tessuto più di incognite che di certezze.
Ma proprio così sono le città: luoghi che sommano imperfezioni. O meglio, luoghi che per loro natura, sono destinati a custodire le imperfezioni. Le loro mappe oltre che di strade, di vicoli, di piazze, di fiumi, di palazzi, di case, di chiese, di fabbriche sono in realtà fitte anche di cicatrici. Raramente le scorgiamo. A volte si sorvola, non ci si fa caso. A volte addirittura ci si industria per nasconderle, come se fossero qualcosa di sconveniente. A volte invece – e per fortuna – c’è chi le porta allo scoperto. E svelandole ce la fa anche amare.